Deodorante

L’onda non cancella, anzi. © 2007

Supermercato. Navigo tra gli scaffali in cerca di qualche scatoletta per il mio gatto Faag, si sa mai partissi, tra un’onda e l’altra. E, poi, cioccolato amaro che dicono faccia bene contro il colesterolo, yogurth mica tanto calorico, olio, carne, uova e. E che mi manca d’altro? Lo so chi mi manca. Mica che andare alla cassa facendo finta di niente lo risolva il problema. Infatti. Ne trovo traccia, di quel che mi manca, su quello scaffale in basso. Eccolo! È un deodorante, marcainfasil, ma non di quelli a tampone che ce n’ho già due, a casa. Nonnonò. Mi serve, urgentemente, quello dotato di spray. Subito me ne regalo una spruzzata, fischiettando e fingendo di voler semplicemente verificarne la fragranza, e, dopo, solo dopo, a casa, in intimità con la mia pelle, me ne impregnerò, con qualche densa spruzzata, per ricordare. Il suo odore sulla mia, di pelle.

«Ora mi sa che sono proprio messo bene», mi esclamo! Eppure, cacchio, perdere la dignità in questo modo, non pensavo mi sarebbe accaduto di nuovo.

Maaa mic, quale sarà il prossimo passo? Mica arriverai a slinguare fotografie, a leggere lo stesso libro che sai sta leggendo lei in questi giorni, a rileggere tutti i suoi scritti (copiandoli ed incollandoli, uno ad uno, dentro il tuo presente), a tuffarti di nuovo in quel mare credendo di poter ritrovare lei, proprio lei, con una stella in mano per te, addirittura per te? Dimmi che non lo stai già f-a-c-e-n-d-o.

«D’altronde che ci puoi fare?», me lo sono chiesto ancora e ancora, spellandomi da tutti gli orpelli possibili e da ogni labirintico forse «mic, guardami nelle pupille e, dimmi, ora, che cosa desideri, veramente?» Sai che c’è? Che la risposta è sempre e solo una. Lei.

Andrò dal medico. Sai quali siano i turni d’agosto? Come dici? È tutto chiuso, oramai? Anche il ferramenta ha tirato giù la serranda? Quindi nessun chiodo, di riserva? Va bene. E se andassi al pronto soccorso dichiarando di avere il sangue che bolle, secondo te, mi ridacchierebbero in faccia, proponendomi di passare le vacanze appollaiato dentro una ghiacciaia?

È quel quasi che fa la differenza. Cacchio se la fa. Quello del quasi-tutto-compreso. Quasi quasi mi faccio un gintonic, si, tipo quello che ho bevuto con lei.

Nelle terre di Carewall, che dici, c’è l’hanno un supermercato che ofrra salvagenti in offerta speciale per i naufraghi a pelo d’acqua? Quanto manca per arrivare fin là? Quanto mi manca!

La cronaca quotidiana, intanto, mi prospetta: il funerale del babbo di un amico fraterno, la riparazione di una tapparella, un vaffanculo praticamente definitivo con la socia, qualche scampolo di curiosità fotografica e. E debbo ricordare di ricordarmi di non saltare il pranzo.

Chi lo credeva che quel deodorante fosse tanto stupefacente? Tu, Elisewin, te lo saresti mai aspettato?

Perdo tempo

A pelo d’acqua © 2007

Sto per partire, si. Quando e per dove rimane un dettaglio, sotto certi aspetti, trascurabile. Sono sul piede di partire, insomma. Cioè, uno c’è, di piede, ma non è quello d’appoggio. Per questo mi sento un tantino azzoppato. Tipo che, se dovessi fare un salto adesso, inciamperei di sicuro. Nella corsa coi sacchi, ecco dove, potrei fare la mia porca figura, forse. La figura di un sacco, appunto. Ma non di patate, nooo. Magari fossero patate! Invece somigliano tanto a cetrioli, grossi, appuntiti e semoventi.

E. Ammesso e non concesso che, in precedenza, avessi dei piani di partenza, questi hanno subito la comparsa di alcune protuberanze. Protuberanze come le molte isole i cui nomi fluttuanti nella mia testa mi hanno lanciato il loro richiamo, nei sogni della notte scorsa, comparendo e scomparendo random a mo’ di catalogo quasi tutto compreso.

Intanto, in questi primi giorni di vacanza sulla carta, mi sto specializzando nell’arte michelaccesca del perdere tempo. Questo sto facendo, ben ispirato, in tal effimera pratica, da un’isolana doc. In verità, all’inizio, mi ero creato l’illusione di prendermelo, del tempo, ma, poi, con l’andare del tempo, il tempo ha iniziato a sogghignarmi beffardo e a parlarmi: «Eh, eh, t’ho fregato, non vedi? Non vedi quanti granelli di sabbia sono già scivolati giù? Stolto che sei! Davvero pensavi di potermi prendere? Io non ci sono più, uh uh. Sparito. Eclissato, vualà!».

Preso in controtempo, allora, comincio a pensare ad una qualche via di fuga. Perchè non v’è dubbio che, solo, come mi sento in questo momento (non single, proprio solo nel senso di “per i cazzi miei”), rimanere fermo sarebbe deleterio per il mio fragile umore di naufrago. A pelo d’acqua.

Ed ecco, ordunque, la pensata. Qual è il luogo migliore per sentirsi soli? Correggo: isolati? La risposta sorge, dal mare, spontanea. Come un cormorano che riemerge dopo aver cacciato la sua preda e vuol riprendere il volo. Vedi che, mi dico, la notte, come in un gioco di prestigio, con i suoi cataloghi-quasi-tutto-compreso, alla fine, mi ha portato un coniglio! Quello che sbuca dal cilndro e ti risolve l’asincronia temporale? Ma si, anche quest’anno punterò su un’isola al fine di arieggiare le chiappe dopo undici mesi di poltrona abbastanza presidenziale. Quale isola scegliere rimane, per ora, un dilemma.

Sto per partire. Nel frattempo comprerò una bussola nuova ed un paio di remi. Poi si vedrà. È quel “quasi tutto compreso” che mi frena. Per ora. Da belinone, perderò ancora un po’ di tempo.

Un salto

Nel vuoto © 2007

Erano due spermatozoi, in origine. Solo due crudi spermatozoi. E non conoscevano ancora la colla vinilica. Eppure, chi l’avrebbe scritto, che le loro scie si sarebbero incollate nel corso della loro esistenza parallela su questo folle pianeta? La loro vita, lo si intese da subito, dalle prime voraci poppate, mica sarebbe stata figlia dei condizionali. Mi piacerebbe, ti regalerei un sorriso, vorrei ma non posso. Ma che, scherziamo? Si. Meglio, scherziamo ma prendendoci davvero sul serio. Questo concetto lo imparai andando alle lezioni serali di apnea cosmica. Trattasi della “Lesson namber uan: prendersi sul serio, sempre.”. Così, dopo tante poppate, dopo tante costruzioni coi lego, dopo tanti giri del mondo in monopattino, accadde, una sera d’estate di cento anni fa, che un paio di braghe color banana ed un altro paio, blu e lise da troppi bucati, si abbracciarono. E mica fu un abbraccio qualsiasi. Fu di più. Più di qualsiasi condizionale, passato remoto e congiuntivite acuta. Praticamente fu come quando uno si aggrappa ad un ramo di realtà mentre uno tzunami di “se e forse e chissà chi lo sa” sta già piegando le sue gambe. Ed il ramo rispose, da par suo, aggrappandosi alle braccia e stringendole a sè, forte forte forti. Non si sa chi dei due fosse il ramo e chi le braccia e non importa saperlo, in questa storia d’altri tempi.

I tempi, ecco, che poi me ne scordo, diciamo subito dei tempi. I tempi erano maturi. Più ancora dei tempi lo furono i ritmi. Anzi, no. Il ritmo, al singolare. Il ritmo di questi spermatozoi singolarmente evolutisi in donna e uomo. Mic e Mic. Diabolmic ed Evacant. Un ritmo di rara complicità, su tutto proprio tutto, era quello che erano riusciti a costruire, un po’ come fanno la gamba destra con la gamba sinistra, quando non dormono. Come quando decidono di saltare da un muretto. Quel muretto, proprio quello della foto. Una seguì l’altra e viceversa, tenendosi senza trattenersi. Perchè, è chiaro, bianco più del bianco, che lo sapevano, scegliendo di scegliersi, tra miliardi di combinazioni possibili (della serie le stelle sono tante e così via), che sarebbe stato un salto. Un salto dentro il vuoto di un secchio riempito, in seguito, di colla vinilica che, nell’incollarli, avrebbe anche mischiato le carte. Sopra tutto quelle con seme di cuori. Allora, all’epoca del salto, cent’anni addietro, però mica lo sapevano. Sapevano solo che le patate sono buone, a sbucciarle insieme. Ah. E, poi, anche, che nel mare si trovano tutte le risposte del mondo, nascoste dentro una grotta profonda profonda, di quelle che ci vuole un grande allenamento, per raggiungerla, in apnea. Non ci sono bombole che tengano. Infatti il meccanismo di apertura della grotta, al minimo rumore di bolle, farebbe scattare l’allarme. Altra cosa: per entrare necesse est essere in due, dotati di monopinna. Gli ego non sono ammessi, per decreto di Nettuno, in persona.

Non ci son mazzi. Certe storie oggi non accadono più che, a guardare per strada e dentro le vetrine, vi sono troppe innaturali compiacenze per permettere a due ex-spermatozoi con un unico desiderio nella pancia di viversi tanto intensamente da riuscire a camminarsi sul livello del mare. Ma cent’anni fa era diverso. Certi incontri erano figli del sempre. E lo intuivi da subito. Io me lo ricordo, com’era. Non esistevano i baci in affitto, le third laif, i fastfud di pillole e neanche le collezioni di farfalle vendute via emeil. Quando incontravi l’amore (con la E maiuscola) ti sentivi in cima al monte Mitikas. E sapevi che, nonostante gli eventi avrebbero potuto dividerti dal tuo spermatozoo gemello, ne sarebbe sempre valsa la pena, di tuffarsi dentro il più dentro del noi. Fosse stato anche solo per un giorno, da trascorrere dentro una stanza di colore mare adiacente ad una terrazza vista paradiso.

Senza dubbio alcuno: rimane qualcosa di tenerissimo, da raccontare alle generazioni di spermatozoi che verranno, la storia di quel salto. Chi sa se certe storie accadono ancora, oggi, nel 2107. Ora che la luna è andata sull’uomo, i vulcani sono rimasti l’unico luogo dove vivere senza morire di freddo ed i telefonini con il teletrasporto sono diventati un gadget sorpassato. In quella grotta, là, sul fondo del fondo del mare, pare vi siano ancora tracce di colla vinilica.

Il ricordo di un amore

Il ricordo di un amore

è un albero di fotografie

che seccano ma non sbiadiscono

mosse, a ondate,

da vento che non vedi

vento che viaggia oltre, oltre le colline

(rimane bonaccia)

potessi rientrarci anche solo per un minuto

dentro quelle fotografie

lo farei

con i genitali in mano

ed un tuffo dipinto sulla fronte

per far l’amore con la sua mancanza

certe volte perde di vita

il ricordo di un amore

altre volte sgorga ancora, anche a distanza di cent’anni,

gocce di sudore

impastate di gin e di lingue su lingue

così è ora

scarnificante

barca naufraga della quale solo la cima dell’albero

immobile frasca impotente

sopravvive alla burrasca

la musica sono le corde della chitarra di Zabriskie Point

poi ci sono gli odori che ti paiono ancora lì

a millimetri dal naso

profumi di patate appena sbucciate

inaferrabili ed urticanti

da ucciderti il respiro

lentamente

non vi sono regole

nel ricordo di un amore

quando a quell’amore hai donato tutto

(avresti donato tutto)

e, a riviverlo, è armonia

priva di alterazioni genetiche che ne possano graffiare la bellezza

il ricordo di un amore

è una roba di pancia

che ti annebbia le ciglia

e ti fa somatizzare, in singhiozzi di sale,

i brividi e le speranze

frutto di mesi e di messi feconde

ormai sepolte da catena di nave

è

un abbraccio che stordisce ed avresti detto fosse per sempre

è

è

è

qualcosa che ti stritola se è fresco come il suo sorriso di panna

che fino a ieri

si addormentava con me.

Oggi posso solo mascherarmi di fuliggine e di occhiali da sole polaroid e di artificiosi sbrigativi defatiganti convenevoli per tenere pulito il teatro senza attori. Ci scusiamo con il gentile pubblico e non vi preoccupate: i biglietti saranno rimborsati. «Ogni respiro che prendi» sarà uno splendido splendido ricordo. Soltanto. Si ritorna ad essere uomini e non più dei.

Domani. Domani è dura pensarci.

È qui

Apnea © 2007

È qui che voglio respirare i miei limiti. In assenza di parole non necessarie. In fondo è questione di priorità, oltre che di stimoli, riemergere per ritrovare l’aria tersa dalle incomprensioni.

Facciamo il gioco dei desideri, bambini?

Si, bene, inizio io. Desidero essere qui e volare sott’acqua, come volo ora, dentro i vostri battiti lenti.

Credo fermamente che il valore di un uomo si evinca dalla sua capacità di scoprire i suoi limiti ed i suoi desideri e, una volta intesi, fare di tutto per sposare quest’ultimi, avvicinandosi il più possibile ai primi.

È qui, che ritrovo me e me ne svuoto.

Spolparsi

Carne © 2007

E ora vado a ruota libera. Non ho qualcosa da raccontare. Ho. Ho solo voglia di spolparmi, di sentire la carne viva sotto la mia scorza, così come può accadere quando il corpo striscia contro la roccia. Non so se, a tirar fuori questo lato di me, sia il film che ho appena visto, se sia questa fotografia scattata qualche giorno fa, se sia la mia frequentazione con le terminologie chirurgiche che ho imparato in questi giorni.

Se sia, invece, la zanzara appena spiaccicata sul monitor ed il sangue che ne è fuoriuscito. Probabilmente il mio.

So che mica possono starci sempre tramonti e isole e mare accogliente a rappresentare i miei stati d’animo. Così. È una di quelle sere che le dita hanno voglia di parlare, di cacciar fuori la polpa, magra e grassa, della mia irrequietezza, per sfogare la mia necessità di esprimere. Cosa non lo so, di preciso. Ma posso sempre prendere arco e freccia e tirare ad occhi chiusi per scoprire, solo dopo, dove si sia conficcata la freccia. Raccogliere il bersaglio e scarnificarlo con una lama d’acciaio per esaminarne con meticolosità la consistenza, il sapore, l’odore. E cibarmene.

Ho una vita tranquilla, nessuna grossa responsabilità, una vita costruita, con fortuna, nell’idea di fare sempre quello che mi va. Mai avuto capi da odiare o orologi da rispettare. Il lavoro è stato sempre un divertimento pagato decentemente. Ho tutto e di più. Ho provato, addirittura, cosa significhi abbracciare stretti stretti i propri desideri. Ho pure una famiglia che mi adora e che adoro. Mi faccio quasi schifo da solo.

Eppure.

Eppure accade, talvolta accade, di graffiarsi. Capita quando qualcuno ti delude, spesso perchè sei tu che ti aspetti troppo. Accade quando qualche vuoto del passato straremoto viene a galla, per lo più a tradimento. Accade quando vorresti fare di più eppure senti un freno, tipo quando vorresti dire grazie ad una persona ma non lo fai. Accade quando vedi che hai mille fortune, stereo-lavatrice-affetto-qualcosadamangiare, e, invece di gioirne, ti lamenti per qualche scemata. Accade quando ti manca terribilmente una persona e puoi farci niente. Accade quando subisci violenza. Accade quando sei violento. Accade se cominci a farti troppe domande.

Ecco, ora, sarà perchè ne ho scritto, mi sento già meglio. Succhio il sangue della mia preda, che sono io, strappando a morsi la mia irrequietezza, e sto meglio. Sto, vivo.