Plin

Plin.

Plin.

Plin.

Plin.

Cadono piano. Gocce di vita.

Tra un film sui pompini e camminate lungo nudi corridoi dalle pareti ingiallite avanzavano gli ultimi giorni di dicembre. Correva l’anno duemilaotto. Pare ora. Ora che i ricordi stanno perdendo il loro odore per diventare un pupazzo di neve sbiadita.

Plin.

Viene giù?
Si, tranquillo. Piuttosto…
Piuttosto cosa?
Piuttosto, dico, come vanno i globuli bianchi?
Mah.

Plin.

Era stato un anno fantastico. Eh. Si. Almeno fino a dicembre. A quel maedetto 3 dicembre.
Caleidoscopici frammenti d’emozione si erano succeduti a cementare un castello sulla sabbia, granello dopo granello.

Plin.

Plin.

Poi le onde.

Plin.

Facciamo due passi. Ci portiamo dietro le ruote col palo. Vedrai: si tratta solo di qualche giorno. Chi se ne frega se fuori di qua è natale? Noi ci siamo. Ora più che mai.

Mi ritrovai, in quei giorni, a sentirmi un precario dei gesti. Mi ritrovai pian piano, dopo essermi perso dentro un abbraccio morbido come un divano appena foderato. La spiaggia che camminavo nei sogni era una spiaggia lunghissima, di quelle che solo in Irlanda. Era sempre di giorno.

Plin.

Scendo a prendere un caffè alla macchinetta. Così ti porto su i giornali. Tu. Tu, papà, stai tranquillo. Non spazientirti al rumore del vento gelido che sferza gli infissi scrostati di questo ospedale. Stai su.
Ti racconto una barzelletta, ok?
No, ora no.
Allora ti prendo la mano, tu bambino ora, figlio di tuo figlio. E te la tengo stretta, finché ti va.

Plin.

Che anno! Il 2008. Straboccante d’amore e feci.

Plin.

Cadono piano. Le parole. Come dentro una clessidra di desideri.

Plin.

La flebo è terminata. Avanti la prossima.

Ci sta

Non c’è un’immagine che possa descrivere compiutamente questo stato d’animo. Oppure sono troppe ed io non sono in grado di farne mosaico.

Scrivo a me. Solo a me. Poche righe per spurgare almeno un po’ la testa dall’ammasso di circostanze avverse che mi stanno aggredendo in questo maledetto dicembre 2008. Quasi me la prendo con questo mese come ce la si può prendere con il fato o contro ignoti. Ma non esiste un colpevole, in verità. Neppure io mi posso sentire tale.

Eppure. Eppure non basta. Non è sufficiente appurare che questa dolorosa debacle non sia imputabile a qualcosa di ben definito per spazzare via questo stato di tristezza improvvisa che dura da una decina di giorni. È così. E, al momento, non servono gli abbracci, le telefonate, le pacche sulle spalle, i sorrisi e neppure le smorfie dei nipotini, sia pure vestite di incommensurabile bellezza, per ritrovare la fiducia perduta.

Ci sta che uno stia male e gli venga voglia di scrivere anche se non ha un destinatario in mente. Allora si rammenta del blog. Ci sta. Per ricordarsi di ora, in futuro. Quando le cose della vita ricominceranno a girare meglio e queste parole bagnate di mare risuoneranno soltanto come un passaggio, uno dei tanti, dell’esistenza di un piccolo uomo a cui capita di non sentirsi più così forte ed invidiabile ma, al contrario, fragile come un biglietto dell’autobus dentro una pozzanghera.

Non è la rinnovata solitudine che mi spaventa. Non è l’idea che le persone care possano ammalarsi che mi spaventa. Non è il nulla che mi spaventa.

È, sei. È la certezza che, in ogni secondo della giornata, sento e sentirò a lungo la mancanza di una carezza che sapeva regalarmi tutto il senso della vita. Sorsi d’aria complice che hanno dissolto quasi del tutto le mie paure e, per la prima volta, ho pensato potessero durare. Davvero. Grazie a chi mi ha regalato tante gollate d’ossigeno, per più d’un anno, sulla fiducia.

Auguri, mic. Lo champagne, causa recessione, lo sostituiremo con la spuma, quest’anno, eh.

In punta di piedi

🙂 © 2008

In punta di piedi mi appropinquo verso l’uscio per provare a varcarlo.

Mi fermo. Faccio un passo in avanti e due indietro. Dirigo lo sguardo verso il citofono. È muto. Mi avvicino al telefono. È sordo. Torno al computer ma riesco ad estrarne niente a parte la percezione di una ragnatela di vite in parte irreali. Molto voluttuose. Poco propense. Alquanto immaginifiche.

La porta è lontana, ora. Mi rimetto in piedi e riprovo a muovermi, poi a camminare, infine a correre. Niente. L’uscio pare serrato da mille mandate e dietro ad esso vedo una cinta altissima. Impossibile da scavalcare.

Accendo la tivù. C’è gente dentro. C’è un oceano di gente anche di fuori. Spengo tutto: la scatola, il computer, la mente e tento, per l’ultima volta, di afferrare le chiavi del mondo per oltrepassare lo zerbino.

Mi fermo. Rinuncio. Mi siedo un secondo dopo sul parquet che pare il ponte di una nave. Chiudo gli occhi e navigo nel silenzio più totale. Per ore, nella calma consapevolezza che i sogni non possono morire.

In punta di dita si aprono le mie ali. Mi spiegherò.

Ma si

🙂 © 2008

Ma si, prima o poi ricomincio a scrivere fregnacce.

Intanto continuo a collezionare polaroid mentali e metterle insieme a formare mosaici compiuti d’esistenza.

Magari anche ora sputo due fregnacce, come vengono fuori dal cervelletto. Che tanto, si sa, di voglia di andare a letto, ne ho mai troppa. Ascolto musica. Guardo film. Lavoro. Parliamo. Mi abbronzo di suggestioni al computer. Ho una necessità, ora, di nuovo: fare il punto sulla mia relazione. Col pianeta. È stato per questo, in effetti, che, in un lontanissimo passato, mi dilettavo ad impregnare di virgole le pagine di questo blogghino. Credevo fosse quello lo scopo. Ma, cazzo, poi sono accadute un fracco di cose, a valanga, quasi tutte fichissime. Una, più di tutte, bella e bianca. Da riempirci di polaroid, ecco.

Il pianeta, dimenticavo. Si. Magari poi ci ritorno, a relazionarmici. Al risveglio.

A meno che, non sia mai troppo tardi, mi salti su l’idea di gettare a mare tutte le sveglie.
Intanto… godo.

Basilico

Semina © 2008

Anni di terra e sterco. Poi alcuni semi, con meraviglia, germinarono il mio sguardo su quel che è.

Ho una zappa arruginita e sudore da investire.
Ho radici d’acciaio e ragnatela.
Ho occhiali come occhi di mosca per non farmi abbagliare dalla maccaja.
Ho un’innafiatoio sempre a portata di mente.
Ho i tuoi occhiali per vedermi meglio.
Ho un mortaio e l’olio per amalgamare le idee con i profumi del tuo ventre.

Abbiamo un raccolto da nutrire.

Quel ragazzo

mic
mic © ????

"Happiness only real when shared" (la felicità è tale solo quando viene convisa).

Oltre a questa frase, annotata dal protagonista tra le parole di un libro, ve ne sono almeno altre due che mi hanno emozionato, nel percepire quel certo film, l’altra sera. Una spiegava di come l’uomo debba sempre cercare di "vedere le cose" sotto diverse prospettive e basarsi mai su di un’unica veduta che, necessariamente, potrebbe risultare parziale.
Un altro pensiero, toccante per l’intero senso del film, esortava a chiamare le cose "con il loro nome".

Insieme a cotante intense verità, alla musica di Eddie Vedder, alla bellezza selvatica dei luoghi fotografati, all’originalità della storia, alla mancanza di paura da parte del protagonista, sospinto dalla sua ricerca di libertà ad affrontare prove dure, ai silenzi raccontati, mai vuoti, c’è una cosa che, te lo volevo dire, mi ha colpito più di qualunque altra, in "Into the wild": è la dolcezza del protagonista.

Dolcezza, si. Quanta dolcezza nelle espressioni di quel ragazzo che decise, un giorno, di partire alla volta della Sua vita abbandonando l’effimero di un’esistenza superficiale. Una dolcezza quasi imbarazzante, sgorgante dalla cruda caccia di verità e dalla ricerca di rapporti umani basati sulla comprensione.

E. E mi sono chiesto se il protagonista, Alex Supertramp, idee e capelli scompigliati, non somigliasse un po’ a quel ragazzo che, una sporta di anni addietro, si fotografava sullo sfondo di un grande poster, raffigurante un alba, appeso su tutta una parete della sua cameretta. Un ragazzo pieno di sogni, voglioso di libertà, impacciato nel cercarsi al fine di abbracciare una via per esprimersi al mondo. Mi sono risposto che si, anche quel ragazzo che ha tanto viaggiato alone per le strade del mondo, cercava quello che, in cuor loro, tutti o quasi iniziano a cercare, prima di perdersi. Cercava comprensione e amore, solo amore, in fondo.

Amore intenso, condiviso e sereno. Amore con il suo nome. Solido e puro.

Quell’amore. Quel ragazzo. Oggi ce l’ha fatta. A trovare la sua libertà nell’amore. È stato favoloso, Vivi, vederlo insieme, quel film.
Guaranteed. (p.s. E non è così importante la data di scadenza. Importa quel che c’è.)

Guaranteed – Eddie Vedder

On bended knee is no way to be free

Lifting up an empty cup, I ask silently

All my destinations will accept the one that’s me

So I can breathe

Circles they grow and they swallow people whole

Half their lives they say goodnight to wives they’ll never know

A mind full of questions, and a teacher in my soul

And so it goes

Don’t come closer or I’ll have to go

Holding me like gravity are places that pull

If ever there was someone to keep me at home

It would be you

Everyone I come across, in cages they bought

They think of me and my wandering, but I’m never what they thought

I’ve got my indignation, but I’m pure in all my thoughts

I’m alive

Wind in my hair, I feel part of everywhere

Underneath my being is a road that disappeared

Late at night I hear the trees, they’re singing with the dead

Overhead

Leave it to me as I find a way to be

Consider me a satellite, forever orbiting

I knew all the rules, but the rules did not know me

Guaranteed

Vertigini

Praga © 2008

No, dico, ma tu sai, dico davvero, che un certo svuotamento di testa mi viene anche solo a guardarla questa foto. Mica l’ho presa io questa foto, no. Non ero in missione pro, in quei giorni. Il che avrebbe giustificato un parziale allontamento del problema. Ero un semplice turista, senza borsa e tripode a tracolla. Lì c’ero ma ero inginocchiato a terra in preda a vari squilibri dell’organismo. Questa foto l’ha scattata, dalla vetta alttissimissima di una torre, quella mano lieve che, a ben godere, sono un po’ di mesi che si incastra con i miei desideri.

Fino ad una decina di metri niente. Poi. Poi, cacchio, succede che mi sento risucchiare dal vuoto, come una mela  obbediente al signor Newton, e mi iniziano a friggere nella zucca immagini del mio essere, colorate di un rosso molto sanguineo, appiccicate al pavimento sottostante. Non solo. Divento schizofrenico nel farmi catturare dall’idea che qualcuno, per sbaglio o per dispetto, mi spinga oltre il reggipetto. Eppure cerco di vincerla, quest’illogica paura. Ho paura anche che qualcun’altra, tra le persone a me vicine, caschi essa stessa e vorrei poter ancorare tutti al pavimento con delle cime o, meglio ancora, con delle catene.

Insomma, sono irrimediabilmete affetto dalle vertigini. Che vincerò. Mhhh, credo.

Grazie a quella mano che sta insegnandomi a sviscerare, accarezzandoli senza fretta alcuna di risolverli, i miei più nascosti disorientamenti. Volandovi sopra senza precipitare. DÄ›kuji, amore mio grandissimo.

Caro blog

Rimirar m’è dolce © 2007

Caro blog, mi manchi.

Una promessa: non appena l’emersione da mega lavoro passerĂ , tornerò ad immergermi per curiosare dentro il tuo ventre prolifico di occhiate e suoni neanche troppo ovattati. Per il resto, giĂ  lo sai, sto da buddha. Anche se non saprei dirti, così, su due pinne, se il buddha fosse pratico di baci in apnea e di sashimi a lume di candela.

Ciao, pescetti. Ci si nuota, eh.