
Due rotte parallele si incontrano nell’infinito.
Due rotte parallele si incontrano nell’infinito.
“Quando la situazione è così bisogna dare un colpo d’accetta, caro Gigi. Piuttosto, dimmi una cosa: con gli orari Sara è regolare o ballerina?” gli chiedo a bruciapelo.
“Che vuoi dire?” fa lui aggrottando le sopracciglia.
“Andiamo, Gigi… va a prendere l’aperitivo con l’amica? Si ferma fino a tardi per fare l’inventario? Non dirmi che non ci stai attento, a queste cose”. Le sopracciglia da aggrottate gli diventano cupe. Faccio segno alla cameriera di portarci un terzo vodka & ananas.
“Beh… che vuoi che ti dica. Sì, qualche volta succede”. Si sta calando in pensieri bui, Gigi. In questo momento il suo cervello è tutto concentrato alla ricerca di un indizio, una frase sospetta, un ritardo non giustificato, una sera in cui lei ha detto di avere mal di testa.
Rincaro la dose. “Non voglio allarmarti, Gigi, ma devi stare attento. Una donna ci mette niente a cambiare rotta. Per noi è diverso, lo sappiamo tutti e due. Anche se tu ti scopi un’altra per una sera questo non vuol dire che tua moglie non la ami più, anzi. Per una donna invece è il contrario, se iniziano a scopare con terzi vuol dire che non c’è più storia”.
Professione: vigilante – Frilli Editore – Romanzo d’esordio di Enrico Superina.
Era da parecchio, anni forse, che non trascorrevo una serata da solo ascoltando musica e leggendo un buon libro senza farmi accalappiare da computer o tivvù. Stasera, per magia, è successo. Mi sono seduto sulla grande poltrona del salotto, ho acceso una luce puntiforme e calda ed ho regolato il mio iPod sulla voce “Pink Floyd”. Poi ho aperto, tra le mani, il romanzo di un caro amico. Ed ho iniziato a camminare, con i mocassini di Vito Zarri, l’ambiguo protagonista di questo noir, per i vicoli di Genova. Una Genova cruda e meravigliosa, come nessun’altra città al mondo si sognerebbe mai di essere.
Belin, Enrico, non credevo, fino in fondo, che fossi davvero così bravo, a scrivere. A far viaggiare la fantasia. Magari, una di queste sere, ci si vede alla Lepre che mi regali due o tre lezioni di vita. E mi dai anche due dritte su come si insegue un sogno. Il tuo l’hai raggiunto. Stramaledetti complimenti!
Una piccola pausa, nella lettura, per scrivere questo post ed un’altra, più grande, per prendere un taccuino in mano ed iniziare il mio, di viaggio. Per dove? E chi lo sa? Io so solo che ho preso in mano una matita colorata, rossa e blu, come quelle che usavano, una volta, i professori, per corregere i temi. La sento. Lo sento, il desiderio di scarabocchiare. Le mie dita scorrono, scorrono, scorrono. Senza alcuna sceneggiatura ed alcuna regia, se non quella determinata dalle coincidenze e dal profumo di Celyon nell’aria. Mi chiedo e mi aspetto niente. Sono solo curioso. Di scoprire quali e quante siano le sfumature della cannella.
Per te.
Fotografie che mutano random, senza alcuna regola, se non il mio sentire.
Alba – 06/01/2006
“Signori, perdonateci l’ardore
non e’ nei nostri intenti il suscitar clamore
Siam commedianti altro non sappiam fare.
La tentazione e’ forte di recitar l’amore.
E cosi’ chiedendo a voi un gesto di buon cuore
quello piu’ grande vi andiamo a declamare” C.C.
C’era, una volta
celeste
180 gradi sottosopra lo zero
e c’era un capitano
di lunga corsa
ad ostacoli.
Di nome faceva Onaryc
cacciatore di astri
amava starsene tra se
e sestante
a misurar la distanza
naso-luce.
Una notte
la luna era rossa
e piena
di parole
talmente piena
che parean mille stelle a braccetto.
Per dono
da lontano giunse un vento nuovo
era dorato e si forte
che spazzò via tutte le stelle meno una
la più bella
luminosa che risplendea come il sole.
Sorpreso da tal fenomeno
il capitano costruì una canna
alla lunga lenza
attaccò un amo
che lanciò verso il cielo terso
e fu pescato.
Ad un filo
di speranza
si trovò afferrato e senza se
fu sollevato da mare e terra
e nel digradar dal blu al rosso
ricominciò a librare.
“Chi?… Cerca un po’, vediamo.
Questo mio maledetto naso che mi precede di un quarto d’ora ovunque
mi vieta fin l’amore di una brutta…
Chi dunque amo? Non ti par chiaro?… Chi è la donna mia?
Io amo – è naturale! – la più bella che sia!” R.E.
Porom pompera
l’amor non è una chimera
sole cielo mare
sol per chi non ha paura di annegare
musica alle stelle
le promesse sono note alle donzelle.
Cica cica bum
la mente umana è un grande bugzum
zak zak zak
senza fiato le parole fanno smack
onda su onda
ti lancio l’amo e mi pari la gioconda
Tiri tiritiri tu
chiudo gli occhi e non ci sei più
mi ritiro su
è un gioco dalla torre spingermi giù
ticchete ticchete tà
presto allontanati di là.
Un due tre
mi sento come un re
pronti ai posti vai
offri tutto quel che hai
cinc sei sette
per ballar infilarsi le scarpette.
Due zero zero sei
nel silenzio bacio solo lei
palla pelle apollo
il fiore è bello che pare un atollo
cra cra cra
il ritmo pulsa sotto il wonderbra.
Mille bolle a galla
c’è il sole che con la luna balla
datti dubi du
entra in questo infinito blu
ahi ahi ahi
al nuovo walzer non dire mai.
Sinead, Schubert e Fabrizio quest’oggi. A volume alto. Anzi, altissimo. A stecca. Che il pescatore, in attesa paziente, si è stufato di aspettare. Ha deciso di ridiventare cacciatore.
Il pescatore, in genere, sta fermo. Il cacciatore no. Si muove. Cerca. Compie azioni. Non lascia che il tempo lo sovrasti ma lo affronta. C’entra niente la caccia per divertimento qui. Quella mi fa ribrezzo. Io sto parlando dell’esplorazione, dentro ed esternamente a me. E di te che leggi. Scrivo, che importa se con immaturità o con ruvidità, per cacciare. Fuori. Con la tenacia e la forza di Robert.
Perchè ricomincia a starmi sul cazzo il “pensiero” e le ridicole paranoie che esso genera, dal nulla. Le paure che, immotivatamente, edifica. Non sopporto più le seghe mentali. Le mie e quelle altrui. E neanche le espressioni pucci-pucci, quelle scontate ed uguali, le une alle altre. Mi fa schifo la banalità e abiuro le smancerie inespressive recitate, troppo spesso, senza alcuna originalità, nelle parole formali di chi mi saluta sul pianerottolo, nelle righe di alcuni che scrivono blog, nell’indifferenza puzzolente dei finti buoni propositi.
Mi sento un animale. Che agisce. Desidero essere un animale. Che non deve piacere per forza. Non a tutti. Un animale cacciatore. Che vuole cibarsi ed accoppiarsi. Vuole sentire, dentro la pelle, l’acqua calda di un bagno profumatissimo e l’ebrezza di un bicchiere di grappa insieme agli amici veri. Veri come la vita. Mi piacerebbe, desidero, voglio vita. Vita verso vita. Calamitate. Pelle a contatto con pelle. Umide. Voglio solo chi non ha paura di spogliarsi. Entusiasmo. L’incontro di corpo e mente. Meglio un giorno da. Mi sento un leone.
E, con l’energia di un cucciolo, dirigo i miei artigli verso le emo-azioni.
Il resto merda.
Il ritmo. Ci vuole ritmo e sensibilità, sopraffina, per ottemperare alle necessità. Le più profonde dell’io e del noi. Ci vuole fascino e niente pelacci sulle dita per dipingere versi magici e potenti, brani che regalino, a chi li legge, fotografie dell’arrosto. Non fumo. Non vittimismo. Non grigio. Ci voglion le palle, grosse come pompelmi, per sublimarsi nel bianco o nel nero.
8 o 80. Tutto o niente. Fanculo le pecore e le uova. Le festività. I baci di carta. L’amore di plastica. Ogni giorno, ogni benedetto giorno, offre la possibilità di gustare, dall’alba al tramonto, la bellezza dell’esistenza. Che i frutti più saporiti, oltre il vetro della finestra sono lì, ad attendere un cenno, solo un misero cenno, per essere afferrati. Non c’è bisogno di chissà quale capacità per coglierli e spolparli. Per gustarne il succo, aspro o dolce che sia. Senza rimorsi e senza arrendevolezza nel raccontarsi che l’albero è troppo alto. Che potresti scivolare dalle scale. Che…
Che ci sono persone, come questo ragazzo, questa fanciulla, questo uomo, questa fata, che posseggono grande talento. Un dono che offrono senza nulla chiedere. E, poi, si, anche questi sono amici che respiro, respiro, respiro, respiro, respiro, respiro, respiro, respiro e respiro. Non se la cavano affatto male. Mi emozionano. Quasi sempre. Con magia. Sprigionata senza alcun timore di essere giudicati. Semplicemente perchè la loro sensibilità è senza freni. Sono cacciatori, cacciatori di verità. Di vida. Di incanto. Li ringrazio.
De-scrivono emo-azioni che divengono succo. Ed io vorrei somigliare a l’oro. Luccicare. Risplendere di energia riflessa. Godere, creando godimento. Per sentire l’istinto vincere sull’immobilità. E, allora, dai. Dai dai daiiii. Alza ancora un po’ il volume. Sputa l’anima, anche tu, Mic, con sensualità e sensibilità. Con senso.
Non galleggiare, se puoi. Certo che puoi.
È l’ora del cibo. Per l’accoppiamento vedremo. Con calma. Senza far danno. A capo. Olè!
È l’inizio di un romanzo. Che scriverò.
Si intitolerà proprio così: Il velista ed il vento. Nasce da una semplice constatazione. Che un uomo di mare, nato a pochi metri dal Mar Ligure e vissuto sempre a ridosso delle onde, in attesa di brezze e fortuna, non può non amare il vento e non conoscere la rosa. La rosa dei venti, ovviamente.
È il disegno di un fiore che segnala, ai naviganti, in base alla direzione dalla quale proviene, la tipologia di vento che sta soffiando. In seguito a ciò il buon marinaio deciderà verso quale rotta dirigere la prua della propria imbarcazione. Quale viaggio fare, nel rispetto degli elementi naturali che sono i suoi amati amici ed, insieme, i pericoli da cui guardarsi. A chiunque vada per mare la prima regola che si insegna è quella di averne rispetto e timore. Che la sera può essere calmo, tanto invitante da far dimenticare di prendere le giuste precauzioni in merito alla navigazione ed all’ormeggio. E, la mattina, può diventare, in men che non si dica, furioso come solo Eolo sa essere quando le circostanze lo inducono a perdere la propria serenità, abbattendosi con violenza sulle acque. Infatti, è chiaro che la forza del mare dipende esclusivamente da quella del vento che lo lambisce.
Io sono un velista. Ho passato diversi anni a regatare, imparando a veleggiare da autodidatta, a bordo di un Laser, una piccola deriva di quattro metri che acquistai una decina di anni fa e che, al momento, riposa sotto un albero del mio giardino. Presto, molto presto, vorrei nuovamente mettere in acqua la mia piccola barca a vela che battezzai, a suo tempo, “Fuji via”. Dopo anni di deriva, nel ’99, mi sono iscritto ad un corso per cabinati presso il CVC, il Centro Velico di Caprera, una grande scuola velica con base sulla omonima e meravigliosa isola sarda. Dopo il primo corso ne ho fatti molti altri ed, in seguito, ho capito che, per me, una delle più belle esperienze, è quella di percorrere miglia marine nell’eplorazione di baie, porti, fari e, sopra tutto, del mare. Da allora molte delle mie vacanze più belle le ho passate veleggiando lungo il Mediterraneo. Ho trascorso giornate intere senza vedere la costa, sospinto, insieme al mio equipaggio, dal solo piacere di navigare e dalla curiosità per i percorsi del vento.
Vento da misurare, da conoscere, da interpretare. Vento da ascoltare e da farsi accarezzare ad occhi chiusi per meglio intenderene la provenienza ed i salti, timonando di giorno e di notte. Per ottimizzare la portanza di fiocco e randa. Quando l’intensità del vento oltrepassava i 30 nodi, è stato anche necessario issare una tormentina, piccolissima vela triangolare, per non scuffiare e trovarsi a mare con conseguenze ben poco auspicabili. Nel mio navigare ho anche affrontato due burrasche. Per coloro ai quali questa parola, “burrasca”, talvolta ascoltata durante i bollettini Metomar alla radio, dice poco, io posso solo raccontare che, trovarsi nel mezzo di un evento atmosferico di tale intensità, è un po’ come infilare la testa dentro il ciclo di risciacquo di una lavatrice. Si perde ogni riferimento relativamente alla propria posizione e, spesso, tutti gli strumenti elettronici smettono di funzionare. La barca diventa quasi completamente ingovernabile. Di notte, poi, vivere una burrasca, come mi accadde l’anno passato, è ancora peggio, perchè il buio ed i lampi incrementano il pericolo. Ecco, il pericolo. Il più grande, oltre ai fulmini che possono spezzare in due l’imbarcazione, è quello, trovandosi troppo vicini alla costa, di andare a scogli e ben pochi marinai si sono salvati in una simile circostanza.
Da ciò ne consegue che il saggio marinaio non dovrebbe mai, mai e poi mai, farsi sorprendere dalla burrasca e, se la sua barca si trova in porto, è buona cura assicurarla con grande perizia, rafforzando gli ormeggi. Se, poi, la banchina alla quale si è ormeggiati non è ben ridossata, il consiglio è di condurre lo scafo in mare aperto, navigando di conserva con l’ausilio di un’ancora galleggiante, in attesa che la burrasca passi.
L’insegnamento più grande per chi, come me, ha avuto la fortuna di portare a casa la pellaccia, dopo l’incontro con una burrasca, è quello avere ancora più rispetto verso il vento e le sue bizze per averne avuto una conoscenza così intensa e ravvicinata. E di apprezzarne tutte le forze. Dalla più debole alla più potente.
Amo il vento. Non potrebbe essere che così, dopo anni trascorsi a studiarlo, aspettandolo con ansia nei momenti di calma piatta. Dopo molte e molte uscite in mare per farmelo amico e tentare di incanalarlo dentro le vele, al fine di ottimizzare il mio navigare, sono certo che le sue carezze ed i suoi schiaffi sono stati e saranno sempre, per me, l’energia che muove il mio cuore.
Se e quando il vento amerà me, vorrà dire che tutto l’allenamento che ho svolto non è stato inutile. Che la mia vita non sarà stato un romanzo vano.
Mi sono spiegato, le vele?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind.
Ci sono.
Ci sono eventi che accadono, con sorpresa. C’è chi li chiama coincidenze. Chi destino. Chi non li chiama. Scrivere è il modo migliore per fissare quanto mi è accaduto ieri sera.
Lo registro dopo alcune giornate molto ricche nelle quali ho avuto modo di apprezzare quante siano le persone importanti per me. Me lo hanno dimostrato con una dose massiccia di parole e carezze che mi hanno fatto capire come, nella vita, seminare attenzione porti sempre, non importa quando, frutti dal sapore meraviglioso.
Dicevo… ieri sera, dopo una bella serata tra amici, desideravo vedere un film, lontano da tutti i frastuoni. Sono tornato a casa ed ho acceso la tivù. Ho preso un film, a caso, tra quelli ancora non visti, e l’ho dato in pasto al divuddì. Mi sono quindi divanato ed ho iniziato a sognare, con intensità crescente.
Ho bevuto, bevuto e mi sono sbronzato di emozioni come, di certo, non mi aspettavo. Il film raccontava la storia di un medico ed di un manipolo di bimbi. Le loro avventure, ambientate nell’America del ’43, mi hanno commosso e sono state il più bello tra i regali ricevuti in questi giorni di festa. In nessun altro modo avrei desiderato passare il mio tempo, ieri sera, a parte vedere il film insieme alla persona che mi ha riempito di passione e nostalgia negli ultimi tempi. Una fragile creatura, intrisa dello stesso desiderio di esplorazione del mondo, della medesima carica di sensibilità e da uguale bisogno di affetto che caratterizzano il ragazzo, protagonista del film. In fondo è come se. Un capolavoro mi avesse risvegliato lacrime semi-nascoste dal cerume del tempo.
Non sono un medico. Il mio mestiere sarà essere l’eroe della mia vita. Ci sto provando, a recitare la mia parte. Con sensibilità.
C’è mica bisogno di fare tutto quel baccano solo perchè verrò a salutarvi, uno ad una, scendendo dal vostro caminetto, questa notte!
Socchiudete gli occhi quando vi regalerò un flash di affetto. Sentirete un piccolo freeemito, sulle guance.
È il minimo, per ringraziarvi e ricambiarvi del mare di lava che avete riversato su di me, da quando ho iniziato a scarabocchiare qua sopra. Tanto affetto mi ha lasciato decisamente basito. In credulo. Sorpreso che, anche attraverso le nostre paginette, possano trasmettersi il germe della solidale tenerezza e quello della simpatia senza confine.