
Vitamine, ecco. Per disintossicarsi. Altro che seghe mentali!
Io ti voto. E mi emoziono di te.
Vitamine, ecco. Per disintossicarsi. Altro che seghe mentali!
Io ti voto. E mi emoziono di te.
No, grazie, preferisco l’oceano. Nel sentirlo e nel vederlo, tal capolavoro, ho pensato, per motivi diversi, ma non troppo, a cristina ed a mic. Entrambe ringrazio per ciò che hanno la pazienza di insegnarmi. Con passione per i versi in e di libertà.
Di tango, di kebap e di sesso (racconto semiserio scribacchiato oggi al posto di lavorare).
Atto primo. Casa. Camere e voci che si comunicano e gatti che rincorrono.
– Ti va?
– Mi va.
– Miilonga, si. Stasera alle otto. Tango e follia.
– Bello.
– Bella, tu.
– Prepariamoci. Preparati. Via quella felpa agli antipodi. Via quegli anfibi. Via quell’espressione da centaura sempre in viaggio.
– E tu… Si, tu. Via quelle scarpe da ginnastica e quella pancetta da ragionatore. E via quell’odore di tabacco e vento.
– Ah, ok. Ci sto. Per una sera ci sta. Di prendersi sul serio per gioco. Per una sera niente scatti e risate di ombelico. Si.
– Ma a chi la racconti? Sai già che. Che ci crolleremo addosso di alcool e sudore. Facciamolo almeno con classe. Stasera.
– Classe, ecco. Hai ragione. È la parola giusta. A proposito, che ne dici della piega dei miei pantaloni neri?
– Niente male. Senti. E tu che cosa pensi del mio decoltè? E della scarpina? E dell’orecchino? E?
– Troppa cipria.
– Hai ragione. Rossetto e nocciolato, allora. E vualà, la pettinatura raccolta risolve alla grande. Non dici?
– Dico di si. Andiamo, ora.
Atto secondo. Tacco e tarocchi. Pavimento di parquet, liscio e graffiato. Come una lastra d’acqua incisa dalle passioni che vi scorrono sopra. La sala è un bijoux. Di talco e di sete. Di fisarmonica e lumini.
– Afferrami.
– Si. Cacchio, ci provo. Balli bene, tu. Ma dove hai imparato? O hai vissuto in Argentina?
– Accerchiami.
– Sento il ritmo. Piano. Scorrermi. Ferma, tu. Al centro dei passi.
– Stringimi.
– Le mie mani lo fanno. Alla vita. Con vita. Inizio, sai? Inizio a ballarti.
– Accoccolami.
– Bella, come sei bella!
– Volami.
– Ti volo e volo anch’io. Mi lascio andare. Di lievito e fuoco.
– Appassionami.
– Le mie labbra. Le tue.
– Incrociami.
– Stinco-stinco. Polso-polso. Rotula-rotula. Siamo cerchi che si chiudono. Ciao, eh.
– Incastrami, ora. Stai imparando. Bravo. Mi piaci. Lo sai che mi piaci, vero?
– Si. Tu di più.
– Non lasciarmi. Non lasciarmi mai.
– Io ti sorrido.
– Tu mi sorridi.
– Fuoco fuori, alimentato da sudori e concentrati sguardi.
– Fuoco dentro, alimentato di noi e dal sapore di ricci appena schiusi al sole.
– Non ti lascerò.
– Ti.
– Ti.
Atto terzo. Vestiti slacciati. Scarpe in mano. E via per le strade della città dormiente, a cercare un venditore turco di kebap. Bottega nei vicoli.
– Trovato! Corriamo.
– Che vista che hai! Brava!
– Due, piccanti, per favore, con tzatziki ed insalata.
– Ed anche due birre, del diavolo. Grazie. Quanto?
– No. Tu stasera lascia stare. Dopo il ballo ora tocca a me dirigere il gioco.
– Maaa.
– Zitto.
– Non insisto. Grazie.
– Nessun grazie.
– Ora non ti arrabbiare, eh, neanche per finta.
– Scherzi? Con te?
– Prendi il sacchetto ed andiamo, subito.
– Agli ordini, capa.
– Guido io la hornet e tu dietro.
– Non sgommare, almeno. E rallenta che mi voglio accendere una siga.
– Viaaaaaaaaaa.
Atto quarto. Battigia e risacca di onde. Braccia caracollanti e volti lievemente ondivaghi. Un molo nascosto. Un soffitto di costellazioni ed un gozzo per materasso.
– Che angolo!
– Ti piace, questo nascondiglio?
– Si. Hai scelto un’ottimo posto per mangiarci il kebap. Davvero. Odore di vernice ed alghe.
– 🙂
– Sicura che non ci vede nessuno?
– Sicura.
– Prendo il mio. Ecco il tuo. Lo sapevi che il kebap mi eccita? Vero? Dì che lo sapevi.
– Ehm, no. Cioè. Forse. Lo intuivo, dal momento che quella volta che mi sono cosparsa di cippollotti di tropea sei letteralmente impazzito di piacere.
– Cazzo. Sei davvero una donna al peperoncino.
– Scivolato lo tzatziki.
– Hai fatto apposta?
– Si.
– Ecco, un pomodoro sulla tua camicia di lino. Così devi levartela.
– Ci sto. Mi piace leccarti la carne.
– Chiudi gli occhi ed immagina.
– Si. Cosa debbo immaginare?
– La lama d’acciao che taglia, accarezzandola, la corteccia del vitello che gira sullo spiedo. Strati a formare un cilindro.
– Come noi, ora.
– Bravo. Come un tango di corpi speziati. Mi capisci. Tu riesci a percepirmi naturalmente. Entrami.
– Balliamo?
– Si. Siamo circolari e rotoliamo.
– È un vortice. Pane arabo, origano, peperoncino, cumino, coriandolo, aneto e grassi sciolti ci solleticano la pelle. Li senti?
– Si, tesoro, li sento tutti, i sapori di noi. E…
– E?
– E sai che c’è?
– Sussurramelo, ora, bella che sei.
– C’è che noi ci sorprendiamo sempre.
– È vero.
– Sarà mica perchè siamo cartoni animati d’acqua e di follia?
– Cerchi che si rigenerano d’infinito vorrai dire.
– Si, amore.
Plin.
Plin.
Plin.
Guardo fuori dalla finestra e, dentro quel sorriso di 24 gocce, percepisco la vita piovermi addosso. Cogito, il minimo indispensabile, e riconosco l’estate addolcire la neve di caldi nuovi. Sciolgono. Ricogito ancora un po’: il punto è che un bravo attore non è colui che sa fingere ma colui che sa immedesimarsi nella parte. Mettersi nei panni di. Così è quando ascolti. Tutto. Anche quando ascolti l’acqua che scivola e si separa in strane forme generando un insieme: l’anima. Si, l’anima delle cose. Il centro senza disordine. Le parole cadono su questo vetro a spruzzi e ne vengono assorbite trasformandosi, senza sforzo, in un giardino di idee. Creare. Creare di semplice movimento. Questo mi da interesse. Senza stupire di particelle rumorose. Semplice come bere. Avvicino il bicchiere alle labbra di stimolo assetate. Semplice. Qualcosa succederà. Prima o poi. È matematico. C’è niente da dimostrare. Dall’acqua nasce vita. Dall’ascolto un bravo attore. Da un sorriso che innonda rinasco io.
Jeux d’eau di piano sonati e mi avvicino a te. Di pelle e vino.
Il mare è un uovo grande grande, ma non di cioccolato!
C’è una cosa che mi piace di Milano. Quando me ne vado via per tornarmene a Genova. Ed inizia l’autostrada. Come l’altra notte.
Un caffè. Uno ancora. Mi tolgo la giacca ed allento la cintura. Chiave nella serratura. Apro la portiera. Scatta l’allarme. Cazzo, me lo ricodo mai. Amen. Accendo e parto. Ornella inizia a parlarmi. È di compagnia, lei, come sempre, amica dalla dolce voce e dalle rassicuranti promesse. Roteo la manopola del volume dell’autoradio e parto, scattando tra le strade della prepotenza metropolitana per dileguarmi, il più presto possibile, lungo il serpente dell’A7. Alzo ancora il volume. A manetta. E mi impregno della voce di Fabrizio che si mescola ai consigli di Ornella. Complice, sorrido a loro e mi concentro sul cruscotto e sul fiume di asfalto che si mescola alle luci abbaglianti. Creuza de mä è distante ancora 130 chilometri. Sto bene. Infatti canto. Pur stonato canto a squarciagola. A Gropello l’autostrada è chiusa ed allora, seguendo branchi di tir, attraverso le campagne padane coltivate a centri commerciali e concessionarie enormi che, nella notte, paiono ancora più enormi. Dopo tre quarti d’ora raggiungo un casello ma non so quale. Ornella mi dice di seguire a destra e Fabrizio mi racconta dei campi di grano. Poi è tempo di autogrill. Barrette di cioccolato, occhiata alle riviste, dialoghi misti tra ragazze con borsetta e camionisti turchi. Pieno e riparto. Finalmente arrivo a Serravalle ed inizio a giocare con le curve. Penso: scrivo e fotografo per il piacere di raccontarle. Viaggio per la necessità di viverle. Le emozioni dell’anima strada. Ho la zingaraggine nel dna anche se, da qualche anno, ho la tendenza a nascondermela dentro un paio di pantofole. Ornella lo sa bene. Ecco, ora intravedo le silhouette dell’Appennino disegnate dalla luce piena della luna. Gli spazi grigionero si aprono gradualmente al mio mare. Zena, patria mia, rieccomi a te. Ora arriva il bello. La sopraelevata. Grattacieli e lanterna. Fabrizio rivive. All’ombra del primo sole si apre il porto e le gigantesche sagome dei traghetti e delle navi mercantili che sonnecchiano alla destra del mio sguardo. Alla sinistra è l’angiporto con il domino di case. Sono immagini scolpite da sempre nella mia mente eppure originali ogni volta che percorro la sopraelevata. Respiro mare di nuovo ed il profumo di vento e sale si sostiuisce all’odore di smog. Godo. Godo davvero. Fotogrammi a ripetizione. L’acquario. I bacini ed i cantieri navali. Il porticciolo. Corso Italia. Vernazzola. Casa. Sono a casa. Ornella gps mi dice: hai raggiundo la meta. La spengo. Anche Fabrizio non ha più voce, per stanotte. C’è un’idea di alba sulla mia pelle. Belin che alba! Scendo dall’auto sbadigliando e sussurro tra me e me:
Non so, mi ha colto come un virus del casso. Strano, maleodorante, quasi lancinante. Mi sento come alla fine di una favola. Una favola bellissima che termina qui. Ma, siccome non amo quelli che scompaiono del tutto e neppure i lunghi addii col fazzoletto intriso di pixel, non chiudo del tutto il blog ma pigio soltanto il tasto pausa e, per farla breve, proverò, da oggi, a godermi la vita con i suoi alti ed i suoi bassi. Con musica, insomma. Tirerò fuori dalla polvere del tempo il mio vecchio mangiadischi rosso e metterò su quella canzone della Carrà e me ne andrò a spasso con le mie fantasie non più guastate dalla troppa viltà di questo mondo che mi fa schifo e puzza e che non sa apprezzare la mia cristalliina ingenuità. E.
Grazie a tutte le mie adorate lettrici ed affettuosi lettori.
+ vita
– pausa (pesce virtuale)
p.s. Per chi non l’avesse intuito, dal pesce raffigurato, quanto sopra è una burla burlata. E chi mi caccia a me? Son peggio di Andreotti, tanto che vorrebbero farci le supposte, con le mie fregnacce. Alla prossima, quindi, a molto breve. Play.
Lo scopo primario della mia esistenza è stato quello di scoprire l’origine della vita. Ambizioso e concentrato sulla risoluzione dell’arcano mi misi al lavoro, fin dai tempi dell’asilo, effettuando ripetuti ed accurati esperimenti aventi per oggetto una gallina ed un uovo. Il mistero restò, per l’appunto, un mistero. Crebbi e diventai un ragazzo giocante. Mi dedicai allora allo studio della donna, esemplare del genere animale tra i più inesplicabili. Ahimè, nonostante numerose e profonde investigazioni, non riuscii a cavare un bel nulla dal buco nero che avrebbe potuto svelarmi l’origine della vita. Passavano i giorni, le settimane, gli anni luce. Mi laureai in tutto ciò che potesse avere a che fare con lo scopo della mia ricerca. Fui assunto al cern e divenni in breve tempo un luminare, sopra tutti a seguito dell’invenzione per la quale presi financo un Nobel: il satellite quintessenza, capace di esplorare le più minuscole radiazioni di fondo cosmiche. Un cazzo! Gli spermatozoi delle galassie, possibili rivelatori dell’orgine del tutto, rimasero avviluppati dentro un’energia oscura più fitta della nebbia in val padana. Mi ritirai, infine, a vivere all’interno di un monastero induista sulle alte vette himalayane. Trascorsi anni ad affinare la ricerca del karma supremo, l’origine della creazione. Om! L’intricato arcano rimase ancora tale. Stanco, sfinito, afffranto, un bel giorno di primavera, mentre stavo camminando lungo un dirupo, si ruppe il bastone che reggeva la mia vecchiaia. Nello scivolare rischiai di schiacciare una rosa di rara purezza. Per evitarla feci un movimento brusco e, pungendomi, precipitai. Volando a crepapelle ebbi, finalmente, l’illuminazione che svelò ciò che aveva assillato tutta la mia esistenza.
La folle origine della vita sta nell’essere pronti a donare la vita stessa. Replicando amore per amore.
Ti regalerò un seme. Fanne rosa.
N.d.b. Oppure pigliate ‘na pastiglia e facciamoci ‘na scopata galattica. Senza spine però, ehhh.
Ehi cocca. Ma che t’imbelini? Diciamo. Cielo! E non dico. Bene dico. Catorcio e sghinbercio. Ti nutro e mi nutro come un sorcio. Poi ti verso una birra e t’invito a berla. Sett’etti di focaccia, patate e fantasia. Non serve altro. A noi. Per stimolarci l’intestino con le parole non dette e quelle solo accennate. È come un massaggio intonato sul pentagramma dei nostri desideri. Manca il soggetto nella costruzione grammaticale. È vero. Credevo fosse sotto. Inteso. Il soggetto sei Tu. E che soggetto! La prossima volta vedrò di non farmi fregare, te lo prometto. Da chi usa troppi io e pochi tu. Nessun noi. Noi lo sappiamo, vero (?) che cosa è importanteperdavvero. Paletta porca! Domenica mattina di musica, bicicletta e qualche fotografia ritagliata nello sguardo che mai si distoglie dal centro di grevità permanente. Random mp3. Passa l’inno. S’è desta. Siam pronti alla morte. La vita chiamò. Solo che, per un malfunzionamento della sip, io non potei risponderle. Ed allora eccomi-ci costì. In cucina, a mescolare patate e focaccia. In forno. Senza contorno. Solo salsa, a pioggia, come fantasia, da ballare a perdifiasco. Cin! Sta bene anche la birra. L’incenso a saturare l’aria sarà lo spuntino per i nostri nasi. Nasi che fiutano ogni traccia che possa concentrare l’esplorazione nei meandri di noi. Sotto e sopra pelle. Domenica è sempre di domenica. Il calcio con le pere. Le bugie hanno le gambe storte. Sono frasi sfatte e proverbiali sciocchezze come quella che recita: moglie e buoi dei quartieri tuoi. O forse no? Ci cogito, almeno un bel dieci minuti. Anche 12, come gli apostrofi rosa. I baci in quota e le carezze sott’olio. A spron sbattuto ecco la prognosi: macchisenefrega! Si, senza indugio, la soluzione è sempre e solo una e trina. Sentire, sentire, sentire. E gettare le domande nel fuoco. Quindi, Watson, ciò che si evince è che se non vi sono domande non vi possono essere neppure risposte. E tutto scorre liscio. Senza condizionali. In libertà non vigilata. Come la marmellata, a ondate sulle nostre dita. Che noi, si sappia, mica ci basta l’idea del dolce. Noi siamo persone di tatto. Ci immergiamo dentro lo zucchero e le frutta cotte perchè delle parole non sappiamo che farcene, se non sono condite dalle azioni e reazioni. Noi tocchiamo, si, proprio come Cyrano. Ci mettiamo il naso ed i polpastrelli. Mica vogliamo apparire teatralmente profondi come quella del terzo piano che, la domenica mattina, ci scrolla addosso la tovaglia della sera prima sbriciolandoci addosso il suo ego a pezzentini. Una scopata e via. Ma va là. Avanti il prossimo. Noi no. Noi. No. Noi. Siam burloni e fanfaroni. E ci si incazza anche parecchio quando cercano d’imprigionarci dentro un virtuale “felici e dementi”. Universi e astronavi. Su fate i bravi. Guardatevi sempre nelle palle degli occhi quando brindate. Che quello è il segno del noi. Ed anche lo sdeng dei bicchieri che ammiccano, qualche goccia sul tavolo, sorsate lunghe come la voglia di scoprirsi. Con chiarezza. Senza singhiozzo. Tutto giù nel gargarozzo e, cascasse il mondo, tutti giù per terra. Nudi a nudo. Mettendosi in gioco senza giocarsi. Predicando poco e razzolandosi a più non possiamo. Ahhhhhh. Boccata. Sapore di viaggio e polvere d’autostrada nei denti. Braccia aperte e movimento delle mani amplificato. Gesti di incontro. Un’idea. Cento idee. Da mettere in pratica. Senza dubbi. Solo fantasia e qualche oncia di poetica meringata. Leccornie per anime dannate. Caffè nero bollente. Focaccia a sorpresa. Entusiasmo. Qualche fotografia. Il tutto a cucchiaiate, per stupirci, senza tempo. Yahwwwwnnn!
Tra me e me e tra te e te c’è un noi. È il gioco dell’inventare. Cambiando, ad ogni passo, la prospettiva della reciproca percezione. Ed il tempo di cottura delle patate.
p.s. W l’ora leale. Odoriamoci. A nudo e senza immagine, per oggi, che il caffè se no si sbrucia.